giovedì 17 settembre 2020
Ripensare la scuola al tempo della pandemia da Covid-19
Stiamo vivendo un momento di grande inquietudine della nostra società, che non sarà facile eliminare brevi tempore. La pandemia da Covid ha messo in ginocchio non solo l’economia del paese provocando la chiusura di tante aziende, ma ha fatto anche emergere dal pantano dell’ordinarietà tutte le storture e le inefficienze del sistema Italia, in ogni ambito. Parlando di scuola, che rappresenta sicuramente la parte più significativa perché incide sulla formazione dei futuri cittadini della nazione, si ripropongono problemi decennali mai risolti, e parlo di edifici fatiscenti, di mancanza di aule, di laboratori, di palestre, di docenti di sostegno ai diversamente abili, ma anche di supporto agli alunni e alle famiglie in condizioni di disagio da parte delle ASL locali, di tipo psicologico-sanitario e assistenziale. Insomma, i problemi della scuola sono tanti, troppi per potere crocifiggere l’ultima ministra per inadempienze. In una più ampia visione, però, che possa avere la lungimiranza di una riforma complessiva della scuola, io comincerei a considerare l’opportunità di riorientare i compiti degli insegnanti secondo un’etica di responsabilità, rivolta non solo agli studenti e alle loro famiglie, ma addirittura alla società in generale. Mi ritorna in mente la lezione di F. De Sanctis: “Le scuole stanno come di mezzo tra i sapienti ed il popolo” e contrapponendo moralisticamente i giovani ai vecchi li distingueva come portatori gli uni di idee eterne e celesti gli altri di interessi, per cui diceva ai giovani: “... se voi vi faceste l’eco passionata dell’interesse vestito di passione... voi scendereste infino al popolo, voi usurpereste al popolo, trista usurpazione, la sua leggerezza e ignoranza.” Probabilmente mi si accuserà di pensare ad una scuola ideale distante mille miglia dalla realtà, ma la scuola oggi cosa è diventata? Come forma e come educa le nuove generazioni? Non vediamo forse nella società il dilagare di comportamenti scorretti e sempre più spesso ispirati a violenza gratuita? Non ci accorgiamo che sui social si manifestano ignoranza, protervia, arroganza e chi più ne ha più ne metta di cose negative? La scuola si interroga sul risultato delle sue finalità educative? Cosa manca allora alla scuola di oggi se non la pratica delle buone idee, che rimangono invece in bella mostra su quintali di carte che nessuno legge? Io, come insegnante in un liceo dove pure ci sono tanti studenti eccellenti, motivati e sensibili, vedo il pericolo insito nella pedagogia imperante che è facile, gaia, tutta protesa a vezzeggiare gli alunni più di quanto non facciano già le famiglie. Nella scuola tutto concorre a rendere i giovani sempre più deresponsabilizzati, facilitati nel percorso scolastico da un clima lassista, di gioiosa spensieratezza, dove chi fa e chi non fa avanza allo stesso identico modo, senza lode e senza biasimo. Nel patetico tentativo di rincorrere il nuovo ad ogni costo anche la scuola è caduta nel pantano del consumismo, del tutto facile e subito, mandando in soffitta tutti i valori di una sana educazione. Certo è che l’intera società ricerca l’agiatezza, il comfort ad ogni livello, il divertimento ad oltranza, ma la scuola doveva essere come un faro, una guida, uno sprone al raggiungimento dei più elevati traguardi, ed invece…
Invece, non è così. La scuola si adegua al mondo che va in rovina, non crede più in se stessa, smarrisce la propria identità, rincorre modelli alieni alla sua funzione, non sa più qual è la strada maestra, gareggia per un primato di quantità piuttosto che di qualità. E allora si adopera in mille progetti, in tante attività che alla fine sfiancano senza ricadute, se non poche, sulla reale crescita umana e culturale dei ragazzi. Di conseguenza, se la stessa scuola è occupata in attività che distraggono dallo studio vero, come si può immaginare che i ragazzi studino a casa, in proprio, con sacrificio, quando di questo nessuno gliene renderà merito? Diceva G. Lombardo Radice, in un vecchio saggio di pedagogia “Io vedo in ciascun alunno le piaghe morali legate a tutto un modo di essere di una civiltà. E me ne faccio un problema.” Il rischio palese è che la scuola stia diventando un’istituzione senza identità, soppiantata nella sua funzione sociale dai miracoli di Internet, di fronte ai quali i suoi insegnanti vengono mortificati, se non hanno le giuste difese. Gli insegnanti… anche questi non rispondono più da tempo ai canoni dell’educazione sostanziata di principi morali interiorizzati. Oggi sono preferiti i tecnici dell’insegnamento e gli esperti della burocrazia. I nuovi Dirigenti scolastici li privilegiano in quanto questi forniscono supporto alla gestione e organizzazione delle attività; gli altri insegnanti, quelli che trasmettono la propria saggezza ai ragazzi con le strategie messe in atto nella quotidianità del loro lavoro scolastico, sono messi ai margini. Funziona così: la scuola è un enorme carrozzone che deve andare avanti comunque. Gettare un fascio di luce sulla figura di questo insegnante che è assolutamente prioritaria in qualsivoglia processo educativo deve essere il punto di partenza per una nuova scuola. Bisogna quindi ripartire dalla cultura e valorizzarla al meglio nella istituzione che le è propria.
Chi, se non l'insegnante colto, sa efficacemente utilizzare le sue conoscenze, sa ricomporre l'unità del sapere e scomporla per offrire agli alunni quei nuclei concettuali fondanti della propria disciplina, che sono poi le strutture culturali di base, che rendono, infine, capacità di analisi e di riflessione? Come non parlare di cultura, di una didattica della cultura, che è la sola in grado di assicurare la formazione della personalità, che mette in condizione il giovane di sapersi porre in relazione con gli altri, le cose, il mondo? E' l'insegnante colto che assicura alla persona la capacità di esprimersi e di comunicare, il gusto delle cose belle, la gioia di impegnarsi a fare, la capacità di osservare con onestà la realtà, l'apertura al mondo e a ciò che va oltre il contingente.
“Non si insegna quello che si vuole; dirò addirittura che non s'insegna quello che si sa o quello che si crede di sapere: s'insegna e si può insegnare solo quello che si è” diceva quel Jean Jaurés, filosofo e politico francese.
La cultura rende pressoché inutile insistere su queste o quelle competenze tecniche che l'insegnante deve pur avere, perché si può anche riuscire nell'intento di fornire un quadro di formazione tecnica, ipotizzabile per tutti, ma l'insegnamento non è questo, o quanto meno, non solo questo. Parlo perciò di stile educativo.
La stessa pedagogia non serve a formare gli insegnanti, da sempre la cultura è la regola prima del maestro, oltre questa non c'è che l'esercizio magistrale, la professione. E “l'esercizio magistrale non si può concepire come applicazione di regole bell’ e pronte, ma come la stessa cultura nel suo cimento, nella sua adeguazione alla mente del discepolo. Il cimento è vario, nuovo ogni volta, imprevisto e imprevedibile. La classe di un anno non è quella di un altro; mutano gli alunni, muta lo stesso insegnante, perché l'uno e l'altro vivono e si trasformano; un alunno non è un altro alunno; il medesimo alunno è in una situazione spirituale sempre in nuovi modi: è la vita così ricca. Il maestro quindi se ha un'organica cultura trova sempre la sua via, altro che regole! La migliore preparazione è e sarà sempre una cultura disinteressata, non professionale, l'insegnamento non può essere concepito come una vocazione. Infatti che senso ha dire che un uomo può avere la vocazione di figlio, padre, cittadino? Egli si deve proporre nel suo essere uomo, che sappia essere figlio, padre, cittadino. Queste le parole di G. Lombardo Radice.
Rossana Cetta
martedì 8 settembre 2020
Ripensare la scuola al tempo della pandemia da Covid-19 (seconda parte)
Quando si parla di scuola non bisogna mai dimenticare che essa non è un’azienda dove un datore di lavoro distribuisce incarichi e gestisce i propri dipendenti. La scuola è una comunità di uguali che presta un servizio alla collettività, svolge un compito di salute pubblica, che alla fine è una missione. Una missione molto elevata e difficile, poiché presuppone nello stesso tempo, arte, fiducia e amore. Voglio riassumere i tratti essenziali di tale missione, secondo il pensiero di Edgar Morin in LA TESTA BEN FATTA:
• Fornire una cultura che permetta di affrontare i problemi fondamentali
• Preparare le menti a rispondere alle sfide che pone la crescente complessità dei problemi
• Preparare le menti ad affrontare le incertezze, in continuo aumento, non solo facendo conoscere la storia incerta e aleatoria dell’Universo, della vita, dell’Umanità, ma anche favorendo l’intelligenza strategica e la scommessa per un mondo migliore
• Educare alla comprensione umana fra vicini e lontani
• Insegnare l’appartenenza alla propria storia, alla propria cultura, alla cittadinanza repubblicana e all’Europa
• Insegnare la cittadinanza terrestre, proponendo lo studio dell’umanità nella sua unità antropologica e nelle sue diversità individuali e culturali.
Queste finalità educative sono legate fra loro e devono nutrirsi a vicenda. Esse devono suscitare la rinascita della cultura attraverso la connessione delle due culture (umanistica e scientifica) e contribuire alla rigenerazione della laicità e alla nascita di una democrazia cognitiva.
Ciò premesso, se cambiano le finalità non possono non cambiare radicalmente i modelli organizzativi.
Oggi la scuola italiana paga pesantemente lo scotto di riforme inadatte, confuse e aleatorie messe in atto da governi di sinistra e di destra, indifferentemente, da almeno trent’anni. Diciamo che da quando è stata cancellata la riforma Gentile, con la sperimentazione prima del nuovo esame di maturità e poi con tutto ciò che ne è seguito, essa è stata a poco a poco depauperata della sua forza democratica e propulsiva nonché educativa nella società italiana. Ma sorvoliamo su tutto questo, e parliamo di organizzazione interna della struttura scolastica, che per conto sua fa anch’essa molti danni, se non altro favorendo discredito sociale e frustrazione negli insegnanti, quelli veri. Da quando, nel 1997, L’Autonomia è entrata nell’ordinamento giuridico, con il
trasferimento alle scuole di un numero crescente di poteri decisionali, nelle scuole di tutta Italia non c’è più pace. Si registra ovunque un parossismo assurdo per il quale si rincorre inutilmente il successo che si misura sul numero dei promossi ogni anno, sui progetti per l’ampliamento dell’Offerta formativa, sulla capacità manageriale del Dirigente e chi più ne ha più ne metta. Basti pensare alla nuova terminologia, al nuovo linguaggio che ha preso piede nella scuola. Un linguaggio prettamente burocratico, privo di sostanza, che si articola in acronimi ridicoli e ridondanti come PAI, PEC, POF, PTOF, PON…
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la scuola buona ed efficiente.
Il trasferimento di poteri decisionali dal Ministero alle singole scuole non ha riguardato solamente questioni di natura amministrativa e gestionale, ma ha modificato anche il progetto educativo nel suo insieme e il modo per costruirlo. Il cosiddetto Piano dell’Offerta formativa vede un modello di scuola fortemente diversificato non solo su base regionale, ma addirittura su base territoriale, per cui esistono scuole di eccellenza e scuole abbandonate senza la minima risorsa. Si pensava, al tempo dell’Autonomia, che un’offerta unica ed uguale per tutto il territorio nazionale fosse superata ed anacronistica, eludendo, però, i rischi di un modello educativo differenziato, sia pure solo su base regionale. Come hanno fatto a non pensare al secolare gap tra Nord e Sud del paese? Come hanno potuto concepire un così largo margine a scelte educative fondamentali per le nuove generazioni?
Oggi i contenuti e i metodi si adeguano alle idee dei Ds, che si succedono a cadenza triennale quando tutto va bene, alle situazioni politiche nazionali e periferiche, al concorso di volontà, spesso solo sulla carta, all’interno del quale intervengono come attori, oltre agli addetti ai lavori, anche i fruitori del servizio (studenti, famiglie) e gli stakeholder istituzionali e sociali (enti locali, imprese, etc.).
La scuola è dunque diventata un sistema organizzativo complesso e tale complessità ha imposto, fra gli altri, il tema del middlemanagement, nato in ambito aziendale nel mondo anglosassone a partire dagli anni Sessanta e poi allargatosi alle pubbliche amministrazioni e di conseguenza alle scuole.
In ambito scolastico la conseguenza più vistosa è stata la totale arbitrarietà del Dirigente ad affidare deleghe a docenti scelti non sulla base di specifiche competenze, ma spesso per il solo bisogno di circondarsi di persone compiacenti a suo servizio, anche rispondendo a logiche clientelari proprie della politica.
La gestione affidata ad operatori intermedi non funziona, genera disuguaglianze e frustrazioni tra persone di pari dignità, le quali non collaborano volentieri, non si confrontano, accettano supinamente le direttive del dirigente, esposte in un immenso materiale cartaceo fatto di copia e incolla.
Negli ultimi tempi questo sistema delle deleghe ha determinato nelle scuole un incremento spaventoso della burocrazia e gli specialisti della burocrazia limitano progressivamente le competenze e le responsabilità di tutti gli operatori della scuola. “Questi sono condannati all’accettazione ignorante delle decisioni di coloro che si ritiene che sappiano, ma la cui intelligenza è spesso miope, perché parcellizzata ed astratta”, come dice E. Morin.
Inoltre, l’autorità di questi esperti, che il più delle volte neanche insegnano o non lo fanno bene perché impaludati nelle carte, sta suscitando un deperimento democratico nella scuola, oltre che un decadimento della qualità dell’istruzione.
Quale prospettiva per il futuro? Dare maggiori responsabilità ai singoli docenti, dando a ciascuno la facoltà di operare secondo le proprie conoscenze e competenze, nel rispetto delle finalità prefissate dallo Stato uguali per tutti e declinate in obiettivi specifici calibrati sugli alunni delle singole classi. Basta con la burocrazia inutile e dispendiosa nella scuola!
Rossana Cetta
martedì 1 settembre 2020
Ripensare la scuola in piena pandemia da Covid-19
In questi giorni si fa un gran parlare di come la scuola deve ricominciare in totale sicurezza sanitaria per gli alunni, per i docenti e tutto il personale addetto. Le Indicazioni del Comitato tecnico scientifico offrono alcune soluzioni, ma al momento si registra un conflitto che sta sfociando in polemiche pesanti circa le innumerevoli responsabilità dei Ds, dei docenti e delle famiglie.
La circostanza m’induce però ad una serie di riflessioni sull’opportunità che tale circostanza offre di ripensare in toto la scuola, sia per quanto concerne le strutture edilizie sia per i contenuti e le modalità dell’apprendimento. Cominciamo dallo spazio in cui si esercita l’attività didattica. La scuola è anche questo. All’evoluzione della scuola come Istituzione fondamentale per la formazione di buoni cittadini, fa riscontro l’evoluzione dell’edificio scolastico. La storia della scuola rispecchia puntualmente la trasformazione dei rapporti di potere fra le classi sociali e la storia dell’architettura scolastica esprime quei rapporti e le concezioni della funzione educativa della società. E dunque, a parte le mascherine, l’igienizzante, il distanziamento di almeno un metro, l’elemento fondamentale di cui in questo momento si ha un assoluto bisogno è lo spazio. Non solo la mia scuola, ma sicuramente tutte le scuole d’Italia in questo momento hanno bisogno di spazio, e come ricavarlo da edifici vecchi e aule anguste quando non fatiscenti, se non accogliendo una concezione diversa, tutta moderna degli spazi interni? L’idea mi è venuta lavorando ad un progetto per una biblioteca nella mia scuola, la quale pur possedendo un patrimonio librario di qualche rispetto, non ha mai avuto uno spazio adeguato ad una sistemazione funzionale. I libri sono depositati in vecchi scaffali polverosi e in remoti ripostigli insieme a riviste, CD, DVD, videocassette e altro. Inutile dire che il rischio sotteso è che i libri stanno diventando oggetti non più in voga, alla stregua dei dischi di vinile, sconosciuti ai ragazzi di oggi. Lo so, è un paradosso che proprio la scuola, che ha il compito di insegnare ad amarli, li releghi poi nel dimenticatoio, ma la realtà è questa. Nella mia scuola non c’è spazio per i libri. Il problema l’ho sollevato negli anni ripetutamente, ma sempre mi si diceva che non disponiamo di un vano e nemmeno di personale qualificato. Ebbene, navigando nella rete mi sono resa conto che la questione spazio è superata già da qualche tempo da una nuova concezione tutta moderna degli spazi interni degli edifici scolastici. Ho visto in altre realtà una semplice riorganizzazione degli spazi secondo una logica di funzionalità e flessibilità consoni a sistemi di insegnamento più avanzati. Non è necessario ristrutturare gli edifici tradizionali abbattendoli del tutto con enorme dispendio di denaro, ma occorre solamente fare propria una concezione dello spazio distante dal modello tradizionale. D’altra parte, anche a leggere le Linee Guida per le architetture interne delle scuole, quelle rinnovate ed approvate nel 2013 su proposta del ministro Profumo, si evince una concezione dello spazio distante dal modello di organizzazione della didattica, rimasto ancorato alla centralità della lezione frontale in aula. Gli spazi di una scuola moderna devono essere flessibili, funzionali a nuove pratiche. Per esempio, mentre in una scuola tradizionale tutti gli spazi sono sempre subordinati alla centralità dell’aula rispetto alla quale i corridoi sono utilizzati solo per il transito degli studenti, luoghi vissuti come “altro” rispetto all’aula, in una scuola 3.0 anche i corridoi diventano uno spazio unico integrato nella pratica didattica. D’altronde tutte le scuole dispongono di ampi corridoi dove spesso i ragazzi uscendo dall’aula s’intrattengono per discutere tra loro, ripetere le lezioni, ascoltare musica o semplicemente per bighellonare lontani dalla noia della lezione. Quanto sarebbe bello, invece, se i corridoi diventassero anch’essi luoghi di apprendimento, spazi modulari e polifunzionali in grado di rispondere a contesti educativi sempre diversi!
Immagino un open space, uno spazio unico integrato in cui anche i microambienti siano finalizzati ad attività diversificate con la stessa dignità delle aule e dei laboratori, in grado di accogliere persone in ogni momento. Sono sicura che nei corridoi delle nostre scuole si possono collocare piccole scaffalature a colori vivaci, tavolini e sedie raggruppabili secondo le esigenze del momento, poster colorati, segnaletica accattivante e chiara, computer collegati alla rete… E ovviamente libri, tanti libri, collocati a scaffali aperti, facilmente consultabili, anche libri di testo, quelli che i docenti ricevono in saggio, messi lì bene in vista per chiunque ne abbia bisogno. Insomma, la sfida è una scuola che spinga alla lettura spontanea, piacevole e divertente e non ad una mera attività utile per l’apprendimento, cosicché i ragazzi possano apprezzare la cultura e conquistarla come atto critico, creativo e non omologante. Inoltre, vista la necessità di coinvolgere nella vita scolastica le varie istituzioni territoriali, tanto vale estendere gli spazi anche all’esterno, offrendosi alla comunità locale come un Centro di Educazione Civile permanente, in grado di valorizzare il territorio rispondendo a reali e concrete istanze sociali. Insomma, la scuola del futuro deve abbattere muri e pareti per costruire una nuova comunicazione!
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