giovedì 30 dicembre 2010

L'anno che verrà

L'anno che sta arrivando tra un anno passerà,
io mi sto preparando
...è questa la novità!




domenica 26 dicembre 2010

È Natale!

È Natale ogni volta
che sorridi a un fratello
e gli tendi la mano.
È Natale ogni volta
che rimani in silenzio
per ascoltare l'altro.
È Natale ogni volta
che non accetti quei principi
che relegano gli oppressi
ai margini della società.
È Natale ogni volta
che speri con quelli che disperano
nella povertà fisica e spirituale.
È Natale ogni volta
che riconosci con umiltà
i tuoi limiti e la tua debolezza.
È Natale ogni volta
che permetti al Signore
di rinascere per donarlo agli altri.

Madre Teresa di Calcutta

mercoledì 22 dicembre 2010

Racconto di Natale

di Dino Buzzati
Tetro e ogivale è l'antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d'inverno. E l'adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c'è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale - ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, i1 carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L'arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.
Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l'inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. "Chi bussa alle porte del Duomo" si chiese don Valentino "la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?" Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata divento entrò un poverello in cenci.
"Che quantità di Dio! " esclamò sorridendo costui guardandosi intorno- "Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori.
Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale. "
"E' di sua eccellenza l'arcivescovo" rispose il prete. "Serve a lui, fra un paio d'ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore."
"Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!"
"Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico" e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.
Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso.
Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.
Don Valentino uscì nella notte, se n'andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l'indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio.
"Buon Natale, reverendo" disse il capofamiglia. "Vuol favorire?"
"Ho fretta, amici" rispose lui. "Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno."
"Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino."
E nell'attimo stesso che l'uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.
Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.
"Ma che cosa fa, reverendo?" gli domandò un contadino. "Vuoi prendersi un malanno con
questo freddo?"
"Guarda laggiù figliolo. Non vedi?"
Il contadino guardò senza stupore. "È nostro" disse. "Ogni Natale viene a benedire i nostri campi."
" Senti " disse il prete. "Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l'arcivescovo possa almeno fare un Natale decente."
"Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi."
"Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì."
"Ne ho abbastanza di salvare la mia!" ridacchiò il contadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.
Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).
Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all'orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. "Aspettami, o Signore " supplicava "per colpa mia l'arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!"
Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?
Finché udì un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.
"Fratello" gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli "abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego."
Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.
"Buon Natale a te, don Valentino" esclamò l'arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. "Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?"

domenica 19 dicembre 2010

Lo spirito del Natale



....Come sarebbe stato bello evitare il Natale, cominciò a pensare. Uno schiocco delle dita ed è il due gennaio. Niente albero, niente compere, niente regali inutili, niente mance, niente confusione e impacchettamenti, niente traffico e folle….niente spreco di soldi» (John Grisham).

sabato 18 dicembre 2010

giovedì 16 dicembre 2010

La natività di Filippo Lippi




La Natività con San Giorgio e San Vincenzo Ferrer di Filippo Lippi fu realizzata da Lippi attorno al 1456. Nella tavola, i personaggi sono raffigurati nelle loro pose più tipiche: da un lato, la Vergine in adorazione del Bambino, inginocchiata nei pressi della stalla con l'asino e il bue; dall'altro, San Giuseppe, colto sotto le rocce che si stagliano su un fondale composto da una serie di piante simbolo della penitenza (vite, mirto, agrifoglio).

domenica 12 dicembre 2010

Preghiera a Dio

Non è più dunque agli uomini che mi rivolgo; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi:
se è lecito che delle deboli creature, perse nell'immensità e impercettibili al resto dell'universo, osino domandare qualche cosa a te, che tutto hai donato,
a te, i cui decreti sono e immutabili e eterni, degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dalla nostra natura.
Fa' sì che questi errori non generino la nostra sventura.
Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l'un l'altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda;
fa' che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera. Fa' sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi,
tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole,
tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate,
tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te,
insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati "uomini" non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione.
Fa' in modo che coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole;
che coloro che coprono i loro abiti di una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera;
che sia uguale adorarti in un gergo nato da una lingua morta o in uno più nuovo.
Fa' che coloro il cui abito è tinto in rosso o in violetto, che dominano su una piccola parte di un piccolo mucchio di fango di questo mondo,
e che posseggono qualche frammento arrotondato di un certo metallo, gioiscano senza inorgoglirsi di ciò che essi chiamano "grandezza" e "ricchezza",
e che gli altri li guardino senza invidia: perché tu sai che in queste cose vane non c'è nulla da invidiare, niente di cui inorgoglirsi.
Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli!
Abbiano in orrore la tirannia esercitata sulle anime,
come odiano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell'attività pacifica!
Se sono inevitabili i flagelli della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli uni con gli altri nei periodi di pace,
ed impieghiamo il breve istante della nostra esistenza per benedire insieme in mille lingue diverse,
dal Siam alla California, la tua bontà che ci ha donato questo istante.

Voltaire, Dal Trattato sulla tolleranza

mercoledì 8 dicembre 2010

LA COSTITUZIONE TRADITA

L'articolo 9 della nostra Costituzione recita:" La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione."
L'articolo impegna lo Stato a essere parte attiva nello sviluppo della cultura, che è semplicemente ogni occasione di elevazione della società attraverso la conoscenza e gli studi, e promuove la ricerca scientifica, come fatto culturale ma soprattutto economico legato alle tecnologie produttive. Anche la tutela del paesaggio (bellezze naturali, parchi, giardini) e del patrimonio artistico e storico (musei, biblioteche, pinacoteche, palazzi d'interesse storico ecc.) è a totale carico dello stato e delle sue varie diramazioni territoriali (Regioni,Provincie,Comuni,Comunità montane).

giovedì 2 dicembre 2010

Vieni via con me

NOS (Olanda)

Talvolta succede qualcosa che ti dà la sensazione che il cambiamento aleggi nell’aria. Potrebbe essere l’imminente caduta di un governo ma anche qualcosa di triviale come un programma televisivo. Mica tanto triviale, con oltre 10 milioni di persone che l’hanno seguito ieri sera. Quasi 1 spettatore su 3 ha scelto di vedere un programma in cui in effetti non succedeva molto di emozionante. Sono state lette delle liste, cantate delle canzoni e tenuti lunghi monologhi. Un miracolo? No, televisione che ti tocca.

Vieni via con me è una canzone di Paolo Conte. Questo ‘Vieni via con me’ è invece un viaggio virtuale attraverso l’Italia Buona in quattro puntate. Una serie di incontri con persone che lottano contro l’ingiustizia e per una società giusta. In teoria un pesante mattone di idealismo, trasmesso per ore usando una ridda di parole ma in modo tale da arrivare dritto al cuore di moltissimi italiani.

Nessun timing è mai stato così perfetto. Mentre Silvio Berlusconi si aggrappa all’ultimo apparente brandello di speranza del suo potere, un’Italia di persone che vogliono un Paese diverso e migliore si alza in piedi. Cittadini critici che lottano per una buona legge sull’eutanasia, per il riconoscimento della nazionalità italiana agli immigrati nati e cresciuti nel Paese, per un’esistenza onesta in cui i meriti pesino più dei favori.

Il programma è di una semplicità da far tenerezza. I presentatori Fabio Fazio, un conduttore piuttosto timido di talk show di successo, e Roberto Saviano, l’autore del bestseller Gomorra che vive sotto scorta, raccontano le cose buone e quelle cattive del loro Paese. Lo fanno chiedendo ai loro ospiti di leggere degli elenchi. Italiani famosi come Beppino Englaro, il padre di Eluana che morì dopo 17 anni di coma mentre lui continuava a lottare per l’eutanasia di sua figlia. Ma anche sconosciuti, come la giovane laureata che legge un elenco dei lavori che non le hanno dato. O la suora che elenca i motivi per i quali dovrebbe essere permesso costruire una moschea a Milano. Gli insulti ricevuti dal dipendente di un callcenter. Le 27 parolacce che esistono in italiano per definire un omosessuale. I principi di un politico di sinistra. Quelli di un politico di destra. Troppi da elencare.

Tutto questo in uno splendido scenario e intervallati da sketch e musica. Un formato che su carta sembra soprattutto soporifero, ma che in questo Paese dove la parola è amata così intensamente è diventato immediatamente un enorme successo. A quanto pare molti italiani sognano questa Italia Buona e forse, chissà, è arrivato il momento di rimboccarsi le maniche per tradurla in realtà.

lunedì 29 novembre 2010

" O emigranti o briganti": Il destino del Sud 3

Tesi n. 3 Carlo Aianiello, La conquista del Sud, Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Rusconi, Milano 1972

Lo sbarco di Garibaldi,la sua fortunata galoppata dalla Sicilia a Napoli, le battaglie di Capua, del Volturno, di Mola e di Gaeta non furono vera guerra, non furono una guerra combattuta tra nemici accaniti. In Calabria reggimenti e brigate si arresero al sopraggiungere di quattro garibaldini e un caporale, e gli ufficiali offrivano loro sigari e l'invitavano a pranzo, quasi a chiedere scusa d'essere borbonici... erano convinti d'entrare a far parte, soggetti e non oggetti, d'una storia nuova, di quelle cose bellissime e modernissime che si chiamavano libertà e progresso. La vera guerra fu quella dei cafoni perché Garibaldi era venuto a togliergli il pane per arricchire i signori, peggio, i piemontesi. Quella guerra i "liberatori" non se l'aspettavano, guerra civile, rivolta agraria, reazione, resistenza armata, brigantaggio. Tutto uno squallido inferno, uno svettar di fiamme nei boschi, una frana di terre nei torrenti e nelle fiumane. Contro i "galantuomini" di casa e gli stranieri di fuori, gente d'altra lingua, d'altre usanze, difforme. Così il reale governo italiano dovette mantenere nelle provincie meridionali per poco meno di dieci anni quasi 120.000 uomini per dare la caccia ai briganti. Secondo la stampa estera, dal gennaio all'ottobre del 1861 si contavano nell'ex Regno delle Due Sicilie 9.860 fucilati, 10.604 feriti,918 case arse, 6 paesi bruciati, 12 chiese predate, 40 donne e 60 ragazzi uccisi, 13.629 imprigionati, 1428 comuni sorti in armi. E questo martirio durò finché i morti furono troppi, nauseati soldati e ribelli dal lungo lezzo di cadaveri.La rivolta durò molti anni, fin quasi al 1869 tornando a divampare di tanto in tanto fino a spegnersi. Ma intanto questo sangue, queste stragi, quest'odio scatenato, fino ad ora sono stati messi in conto a noi, gente del Sud. Il cafone indossò il vestito nero, quello della festa, s'accollò la bisaccia di dura canapa e andò a morire di febbre gialla per poter arricchire con le poche "rimesse" non i suoi ma gli industriali del Nord. Così, quasi per magia, le bisacce si mutarono in valigie di cartone per la generazione nuova, affinché andasse a perdere vita e salute nelle miniere di carbone d'un paese che la sfruttava ugualmente, ma non aveva la pretesa d'averla liberata. La piccola borghesia contadina tornò alla zappa, cioè alla "coltivazione diretta" o al minuto commercio. Della borghesia la parte eletta soppiantò i vecchi baroni oppure in città concorse ai pubblici impieghi, occupò tribunali e atenei. Un gran sonno avvolse l'Italia meridionale; l'uomo del volgo ignorò ogni cosa, l'intelligente distorse persino la storia e gettò nel sepolcreto anche la coscienza di sé, di qui la vergogna per la propria terra e il disprezzo. Non ci sono mai stati da allora, neppure il troppo lodato Giustino Fortunato, politici o grandi uomini che abbiano riscattato l'offesa subita dal Sud.

domenica 21 novembre 2010

La sinistra è...



La Sinistra è l’idea che se guardi il mondo con gli occhi dei più deboli puoi fare davvero un mondo migliore per tutti. Abbiamo la più bella Costituzione del mondo, la si difende ogni giorno e il 25 aprile si fa festa. Nessuno può star bene da solo, stai bene se anche gli altri stanno un po’ bene. Se pochi hanno troppo e troppi hanno poco, l’economia non gira, perché l’ingiustizia fa male all’economia. Ci vuole un mercato che funzioni, senza monopoli, corporazioni, posizioni di dominio, ma ci sono beni che non si possono affidare al mercato: la salute, l’istruzione, la sicurezza. Il lavoro non è tutto, ma questo può dirlo solo chi il lavoro ce l’ha. Il lavoro è la dignità di una persona, sempre, e soprattutto quando hai trent’anni hai paura di passare la vita in panchina, ma chiamare flessibilità una vita precaria è un insulto. E allora, un’ora di lavoro precario non può costare meno di un’ora di lavoro stabile. Chi non paga le tasse mette la mani nelle tasche di chi è più povero di lui. Se cento euro di un operaio, di un pensionato, di un artigiano pagano di più dei cento euro di uno speculatore, vuol dire che il mondo è capovolto. Davanti a un problema serio di salute, non ci può essere né povero né ricco, né calabrese, né lombardo né marocchino. Si fa con quel che si ha, ma si fa per tutti. L’insegnante che insegue un ragazzo per tenerlo a scuola è l’eroe dei nostri tempi. Indebolire la scuola pubblica vuol dire rubare il futuro ai più deboli. La condizione della donna è la misura della civiltà di un Paese, calpestarne la dignità è l’umiliazione di un Paese. Dobbiamo lasciare il Pianeta meglio di come l’abbiamo trovato, perché non abbiamo il diritto di distruggere quello che non è nostro. E l’energia va risparmiata e rinnovata, sgombrando la testa da fanta-piani nucleari. Il bambino, figlio di immigrati, che è nato oggi, non è né immigrato né italiano, dobbiamo dirgli chi è. Lui è un italiano. Se devo morire attaccato per mesi a mille tubi, non può deciderlo il Parlamento, perché un uomo resta un uomo, con la sua dignità, anche nel momento della sofferenza e del distacco. C’è un modo per difendere la fede di ciascuno, per garantire le convinzioni di ciascuno, per riconoscere la condizione di ciascuno: questo modo, irrinunciabile, si chiama laicità. Per guidare l’automobile, che è un fatto pubblico, ci vuole la patente, che è un fatto privato. Per governare, che è un fatto pubblico, bisogna essere persone perbene, che è un fatto privato. Chi si ritiene di sinistra, chi si ritiene progressista, deve tenere vivo il sogno di un mondo in pace, senza odio e violenza, e deve combattere contro la pena di morte, la tortura, ogni altra sopraffazione fisica o morale, e ogni illegalità. Essere progressisti significa combattere l’aggressività che ci abita dentro, quella del più forte sul più debole, dell’uomo sulla donna, di chi ha potere su chi non ne ha e prendere la parte di chi ha meno forza e meno voce. Qui finisce il mio tempo ma non certo il mio elenco. Grazie.

sabato 20 novembre 2010

Sant' Angelo dei Lombardi: un ricordo nel trentennale del terremoto

Ai giovani di Sant'Angelo dei Lombardi, paese straziato dal terremoto dell'80, mi viene da dire: " Voi Sant'Angelo non l'avete conosciuto com'era nel secolo scorso, o meglio lo avete (spero) imparato ad amare attraverso i racconti, i ricordi, le impressioni dei vostri padri e dei vostri nonni, ma nulla di ciò che voi avete appreso, neanche in minima parte, può surrogare ciò che noi abbiamo ricevuto in termini d'identità. Parlo di atteggiamenti di vita individuale e collettiva, degli ideali che muovevano i nostri usi e costumi, delle scelte, dei rapporti tutti fondati sul rispetto, sull'educazione, sulla semplicità, sull'onestà... Insomma, un patrimonio di cultura che voi solo in minima parte avete ereditato, com'è naturale che sia, per lo scorrere inesorabile del tempo"...
Certo non è da imputare come colpa ad alcuno se oggi anche Sant'Angelo è nel Villaggio globale, anch'esso plagiato dal pensiero unico dominante che ci rende uguali nella più aberrante omogeneità imposta dai media. Non sono contro il progresso per partito preso, ma penso che oggi è fortunato quel popolo che è riuscito a mantenere intatte le sue radici, le nostre prima ancora della globalizzazione le ha spezzate per sempre quel terribile sisma del 1980!

martedì 9 novembre 2010

Vieni via con me




Via, via, vieni via con me,

entra in questo amore buio pieno di uomini

via, via, entra e fatti un bagno caldo

c’è un accappatoio azzurro, fuori piove un mondo freddo,

it’s wonderfoul, it’s wonderfoul…

lunedì 8 novembre 2010

" O emigranti o briganti": Il destino del Sud 2

Tesi n. 2: Pasquale Villani, Mezzogiorno fra riforme e rivoluzione, 1962 Ed. Laterza

Le industrie meridionali
Il Mezzogiorno ebbe prima dell'Unità uno sviluppo industriale? E quale fu la consistenza della borghesia industriale meridionale?
Le industrie meridionali ebbero la possibilità di svilupparsi specialmente in seguito ai provvedimenti legislativi del 15 dicembre 1823 e del 20 novembre 1824 che crearono una fortissima barriera protettiva a difesa della produzione nazionale. In ogni parte del Regno rifiorì la lavorazione della seta specialmente in Calabria, come pure la manifattura della lana e l'industria cotoniera. Fu fiorente anche l'industria del ferro e quella delle costruzioni navali (gestite in massima parte direttamente dallo Stato). Fiorenti furono anche attività minori, come la produzione della carta, dei colori, dei cuoiami, dei guanti e dei cappelli. I due rami industriali più progrediti e di maggior rilievo, il siderurgico e il tessile cotoniero erano, il primo finanziato dallo Stato, il secondo nelle mani di un gruppo di industriali elvetici. Rosario Villari in un recente studio sui problemi dell'economia napoletana alla vigilia dell'unità, rileva che sintomi di crisi industriale erano ben presenti prima ancora che l'unificazione sconvolgesse l'antico sistema, anche per la mancanza di infrastrutture e di adeguati istituti di credito. L'abbattimento delle barriere doganali ed il disinteresse del nuovo stato unitario produssero una crisi gravissima che solo alcune fabbriche riuscirono a superare, rendendo evidente la debolezza delle strutture industriali meridionali. Questo a dimostrazione dello scarso peso e scarsa efficienza di una moderna borghesia imprenditoriale. Se fosse stata notevole per forza e per numero avrebbe certamente trovato modo di proteggere i suoi interessi anche nel nuovo Stato, come non mancò di fare la borghesia del Nord. D'altro canto l'agricoltura rimase retaggio del latifondo feudale e non consentì per molto tempo alcuna forma di rivoluzione agraria.

giovedì 4 novembre 2010

L'alternativa possibile...

"L'elezione di Susanna Camusso a segretario generale della Cgil è un passaggio di portata storica", così ha dichiarato Cesare Damiano, capogruppo del Pd in commissione Lavoro. Per la prima volta nella storia d'Italia una donna è alla guida di uno dei più grandi e importanti sindacati del nostro paese, su di lei la speranza di tutte le donne motivate e preparate per la difesa dei diritti di chi lavora con serietà e dignità, uomini o donne che siano...
Con la scelta di una donna "si è superato un ritardo inaccettabile" ha detto il segretario uscente Epifani, ricordando quanto sia difficile per una donna affermarsi nel mondo del lavoro, senza dover rinunciare alla cura della famiglia, che solo a lei è affidata. Tanto più difficile in un paese come il nostro, in una temperie culturale in cui si assiste ad atteggiamenti indegni di un paese civile da parte chi ci governa, atteggiamenti che hanno riportato la condizione della donna ad almeno cinquanta anni indietro.

lunedì 1 novembre 2010

suggestioni autunnali

Autunno




Autunno. Gia' lo sentimmo venire
Nel vento d'agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio

( Vincenzo Cardarelli )

giovedì 28 ottobre 2010

" O emigranti o briganti": Il destino del Sud 1

Comincio oggi una rassegna delle principali tesi, di insigni studiosi, sulla Questione meridionale, così come si è andata profilando dall'Unità d'Italia ad oggi.
Lo faccio innanzitutto per me stessa, per meglio chiarirmi convinzioni che forse ho maturato in maniera acritica, sull'onda di una passione probabilmente troppo letteraria. Lo faccio però anche per i giovani, miei allievi, che nulla sanno o poco sulla storia del Mezzogiorno d'Italia.

Tesi n.1: Benedetto Croce, Storia del Regno d'Italia, Laterza 1958, I^ ediz. 1924
La favola della naturale ricchezza del Mezzogiorno
Fino al momento dell'Unità d'Italia, la società meridionale era composta dai baroni, dal clero e dal popolo. I baroni, proprietari fondiari, non coltivavano direttamente le loro terre ma le affidavano ad agenti e avvocati mentre essi vivevano quasi tutto l'anno in capitale. Vivevano nel lusso e nel fasto senza cura di uffici pubblici, senza svolgere alcun lavoro produttivo. Si dedicavano all'ozio serviti da uno stuolo enorme di servi. Niente meraviglia se a furia di spendere e spandere la loro ricchezza andava scemando sempre più. Essa trapassava nel medio ceto o ceto civile, che era rappresentato dagli speculatori e dagli avvocati. Dagli avvocati la nobiltà , per la sua inerzia e ignoranza, dipendeva affatto e tante erano le controversie nascenti dal groviglio dei diritti e dalla molteplicità delle legislazioni, che l'importanza di quella classe si fece grandissima, e l'esercizio del foro parve fosse la sola strada aperta agli uomini intraprendenti. Dal foro si saliva infatti alla magistratura e agli uffici politici. La struttura sociale della città di Napoli si determinò sin dal secolo XVII sotto il dominio spagnolo che vi portò famiglie di spagnuoli e di altri forestieri legati agli interessi di Spagna, come i genovesi che servirono da richiamo per artigiani e commercianti e servitori, e per ogni qualità di gente intraprendente come quella che si dava ai tribunali. Il popolo odiava i baroni e la piccola nobiltà cittadina e odiava il fatto che solo loro erano costretti a pagare le gabelle. Il popolo sfociava nella plebe affamata e brulicante, violenta e rissosa che i viceré spesso crudelmente giustiziavano. La cultura difettava di studi politici e morali: era solo erudizione acritica e arida. L'unica vera luce al dibattito culturale era la casistica e le sottigliezze forensi, che determinò per secoli l'intellettualità napoletana. L'irriflessione e l'inerzia mentale spiega come gli scrittori tracciassero un quadro del regno di Napoli simile a un Eldorado, il più bel regno d'Europa, ricco di ogni bellezza e virtù.
Napoli era povera, povere erano le provincie!...
Assai spesso, ogni difficoltà era disbrigata con qualche facile teoria, come quella che riportava la causa delle invasioni e delle guerre di continuo sofferte dal Regno di Napoli alla ricchezza del paese, da tutti bramato e invidiato, mentre il segno effettivo della sollecitudine per la cosa pubblica è la trepidazione e l'angoscia e il pessimismo, come il segno mentale è la critica e la censura. Uno solo, tra gli scrittori del tempo, un certo Antonio Serra, calabrese di Cosenza, scrisse un saggio nel 1613, di economia politica sul regno di Napoli, dove si riconosceva chiaramente che il regno era povero, innanzitutto per il sito, disadatto al traffico; povero per la mancanza di "artefici" ossia d'industrie; povero ancor più per l'indole e il costume poco industrioso degli abitatori del paese, i quali non "trafficano fuora del loro proprio paese, né in Europa né In Italia, né fanno l'industrie del paese loro istesso, e in quello vengono a farle genovesi, fiorentini, bergamaschi, veneziani e altri".Povero infine per la natura del suo governo, giacché a bene indirizzare e a svolgere l'economia di un paese vale l'opera di colui che governa...
Napoli è dunque impoverita non dal danaro che i re di Spagna le portano via, ma principalmente dal malgoverno, che è la "causa agente e superiore a tutti gli altri accidenti".La voce di quel tale Serra non fu ascoltata dai suoi contemporanei, non trovò adito nelle menti, ed è miracolo che non sia perduto.

lunedì 25 ottobre 2010

giovedì 21 ottobre 2010

"Autunno, andiamo. E' il tempo delle sagre..."




“La Sagra delle Sagre” si tiene nel suggestivo contesto del Centro Storico di Sant’Angelo dei Lombardi, ha per scopo la valorizzazione e la promozione dei prodotti tipici locali, dell’enogastronomia, dell’artigianato artistico e rurale, delle tradizioni culturali e popolari dell’Alta Irpinia e del turismo delle zone interne.
Oltre alla degustazione di prodotti tipici locali, saranno presenti i vini delle migliori enoteche della provincia di Avellino; sono previsti incontri tematici sull’enogastronomia e laboratori del gusto; inoltre, ci saranno canti e balli tipici della tradizione irpina, animazione per bambini e artisti di strada; non mancheranno i suoni delle tammorre e i ritmi della famosa pizzica e taranta.

lunedì 18 ottobre 2010

La mafizzazione dell'economia

Il denaro è la merce più inquinata e meno trasparente, ne abbiamo avuto conferma proprio in queste ultime settimane .
Nei paradisi fiscali i capitali legali ed illegali trovano luoghi e modi per organizzarsi in nuovi investimenti e si trasformano, dopo il processo di lavanderia e riciclaggio, in grandi strutture (villaggi turistici, ipermercati, complessi industriali...) invadendo l'economia cosiddetta legale che diventa subordinata a quella mafiosa, sempre più esuberante da un punto di vista finanziario.

giovedì 14 ottobre 2010

seminagione culturale nella terra d'Irpinia

A Sant’Andrea di Conza (Av),
al confine tra Altirpinia e Lucania,
un esperimento di rianimazione culturale.
I piccoli paesi dell’entroterra vivono e producono nuove relazioni,
occasioni di incontro e arricchimento culturale. Da ottobre a dicembre 2010 una mostra d’arte internazionale, un convegno di architettura sull’archeologia industriale, una mostra fotografica, un convegno sul Parco rurale dell’Irpinia d’Oriente, escursioni e mostre-mercato con i prodotti del territorio interno.
piccoli paesi / grande vita


COLORI d’Autunno a Sant’Andrea di Conza
Nuova stagione di seminagione culturale
Appuntamenti nell’Ex-Fornace di laterizi


PROGRAMMA GENERALE, OTTOBRE – DICEMBRE 2010
(cliccare sul link seguente per aprire il programma sul blog della CP)
http://comunitaprovvisoria.wordpress.com/colori-dautunno-a-santandrea-di-conza/


PROGRAMMA
SABATO 16 + SABATO 23 OTTOBRE 2010
http://comunitaprovvisoria.wordpress.com/colori-dautunno-a-santandrea-di-conza/armeni-appuntamenti-del-16-e-23-ottobre/


PROGRAMMA
SABATO 30 + DOMENICA 31 OTTOBRE 2010
http://comunitaprovvisoria.wordpress.com/colori-dautunno-a-santandrea-di-conza/fabbriche-sabato-30-ottobre-2010/


ISCRIVENDOTI su FACEBOOK riceverai memo ed aggiornamenti dei vari appuntamenti
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COLORI d’AUTUNNO è realizzata dai giovani amministratori di Sant’Andrea di Conza

con la Partecipazione

Comunità Provvisoria – Cairano 7x - Architettura in Irpinia / incontri itineranti

IrpiniaTurismo www.irpiniaturismo.it



Le manifestazioni non beneficiano di contributi economici pubblici,

si realizzano grazie all’autotassazione degli amministratori comunali e al contributo di sponsor locali.



info : IrpiniaTurismo 329.4278088 0827.69244 - angelo verderosa 348.6063901 - referente in loco : antonella frino 328.3388137

sabato 9 ottobre 2010

La filosofia dell'icona di Massimo Cacciari




Andrea Mantegna Madonna
Sabato 9 ottobre 2010 presso la Chiesa nuova di Rione Parco, ad Avellino, il Prof. Massimo Cacciari ha tenuto una lezione magistrale sul tema "L'icona della Madonna col bambino".

Partendo dall'analisi di due dipinti del Mantegna e di Giovanni Bellini raffiguranti la Vergine che ha tra le braccia il Bambino, il prof. Cacciari ha tracciato, in un rapido excursus, la millenaria storia della rappresentazione iconografica di tale soggetto, a partire dall'immagine della Madre terra nelle religioni preclassiche e classiche. Tale immagine ha rappresentato sempre la forza che dà la vita ma anche la distrugge, nell'eterno ciclo di Morte e di Rinascita. Tuttavia, è nella civiltà cristiana che l'iconografia diviene essenziale, perché il Dio cristiano si è incarnato, si è fatto sostanza e richiede pertanto la rappresentatività del dramma cristologico. L'icona della Vergine nella sua santità reale comincia ad essere rappresentata in seguito al movimento francescano e da allora la vergine appare come la madre che ha tra le braccia un fanciullo che non è più il puer aeternus dotato della forza divina, ma il pauper infante e la madre lo piange già prefigurando la sua deposizione. Lo sguardo della Vergine esprime dunque la consapevolezza di un destino che lei già conosce, è in funzione escatologica, così come il Bambino rappresenta il Logos che si mostra nel silenzio.

giovedì 7 ottobre 2010

lunedì 4 ottobre 2010

...E noi scimmiottiamo gli americani


"Aspettando Superman"
il film che spacca l'America

E' già un caso la pellicola diretta da Guggenheim sul sistema educativo Usa. Al centro, l'implacabile e assurda lotteria per accedere all'istruzione di qualità. Solo gli straricchi possono permettersi buone scuole. Un atto d'accusa contro elementari, medie e licei, agli ultimi posti nelle classifiche dei paesi industrializzati

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - "Papà, la lotteria non è quella cosa dove non vince quasi nessuno?" Daisy ha 12 anni, vive a Los Angeles, la sua domanda è angosciosa. Una bambina non può capire che l'iscrizione a scuola è una vera lotteria dove quasi tutti perdono.

Perde anche lei, alla fine. La scena dell'estrazione a sorte, l'assurda lotteria della speranza, apre e chiude il documentario Waiting for Superman. Un film-verità sulla débâcle del sistema scolastico nella nazione più ricca del pianeta. Un terribile atto d'accusa che sta lacerando l'America: elogiato da Barack Obama in tv, criticato da molti commentatori liberal, compreso il New York Times.
Lo ha realizzato Davis Guggenheim, il regista di Una scomoda verità che nel 2006 costrinse l'America a interrogarsi sul cambiamento climatico, vinse due Oscar, valse il Nobel ad Al Gore. Ha fatto centro un'altra volta: il Washington Post prevede che "questo film avrà un impatto almeno eguale al documentario sull'ambiente, a pochi giorni dalla sua uscita sugli schermi è già chiaro che sarà al centro del dibattito nazionale almeno per due anni".

La maggioranza delle scuole statali in America sono delle fabbriche di analfabeti, i risultati in termini di apprendimento sono disastrosi e per di più prevedibilissimi visto che si ripetono da un anno all'altro. I dati possono sembrare incredibili per chi ancora ha una certa immagine dell'America. Il film li martella senza pietà, ricorrendo ai cartoni animati per associare numeri e immagini: "Fra i 30 paesi più sviluppati l'America figura al 25esimo posto nell'apprendimento scolastico della matematica, al 21esimo nelle scienze. Il 69% dei suoi alunni di terza media non sa leggere e scrivere in modo adeguato. Il 68% è insufficiente in matematica. In California (cioè lo Stato più ricco degli Usa) il 20% dei liceali lascia la scuola senza neppure ottenere il diploma di maturità. La percentuale di abbandono scolastico prima della maturità sale al 26% tra gli ispanici, al 35% fra i neri".

Solo gli straricchi hanno una via di fuga nelle scuole private di élite: così costose (fino a 30.000 dollari di retta annua) da essere inavvicinabili perfino per il ceto medioalto. L'altra speranza è iscrivere i figli a una delle rare scuole pubbliche di qualità, dai risultati accademici comprovati negli anni. C'è chi trasloca apposta, sobbarcandosi il costo di acquisto di una nuova casa, pur di abitare in un quartiere "celebre" perché ha una scuola statale buona. Ma questi istituti sono rari e sommersi dalle domande d'iscrizione. Ecco dove scatta la lotteria. In cerca di un criterio equo e imparziale, le buone scuole sono costrette a estrarre a sorte i nomi dei pochi privilegiati. Meno del 10% ce la farà.

Una terribile roulette russa, che Waiting for Superman descrive minuto per minuto, seguendo le storie di cinque bambini a New York, Washington, Los Angeles. Gli esclusi finiranno condannati su un binario morto, in un sistema di serie B dove accumuleranno lacune, brutti voti, ritardi di conoscenze. Al momento dell'ingresso all'università - se nutrono quell'aspirazione - saranno scartati dalle severe eliminatorie del numero chiuso. "Se manchi l'occasione giusta sei già condannato dall'età di sei anni, sarai un fallito per sempre", è una delle constatazioni feroci del film. In un'altra scena angosciosa un nero che oggi è diventato uno dei riformatori del sistema scolastico passa in auto davanti a un supercarcere e commenta: "La maggior parte dei miei compagni di scuola sono finiti là dentro. È una soluzione costosa: il contribuente paga fino a 30.000 dollari l'anno per ogni carcerato. Se avessero avuto una scuola decente, l'America avrebbe speso di meno".

La realtà dipinta in Waiting for Superman" non riguarda solo le minoranze etniche e i poveri. Tutt'altro. Una delle ragazze, di cui il film segue la storia, appartiene a una famiglia agiata della Silicon Valley californiana. Anche lei costretta alla lotteria, per fuggire dalla "scuola designata" e scadentissima del suo quartiere. "La maggioranza dei nostri ragazzi ha un destino segnato dal codice postale", è il commento amaro: a seconda del tuo luogo di residenza ti tocca una certa scuola statale.
Com'è possibile che l'America sia precipitata così in basso? Il primo allarme sul declino della sua scuola pubblica risale al 1955, il best-seller Why Johnny Can't Read (perché Johnny non sa leggere) denunciò la condizione di "un dodicenne esposto agli effetti di una normale scuola americana". Da allora ogni presidente si è cimentato con qualche riforma, e il documentario gioca sulle immagini d'archivio per ricordare le promesse mancate di Nixon, Carter, Reagan, Clinton. Al punto che gli americani sembrano davvero "aspettare Superman", perché risolva questa crisi. I cui effetti sono stati mascherati a lungo dall'eccellenza delle grandi università. Soprattutto negli studi post-laurea, l'università Usa resta la migliore del mondo e questo le consente di attirare i cervelli asiatici ed europei.

"Entro il 2020 - avverte il film - l'economia americana dovrà riempire 123 milioni di posti di lavoro ad alta qualificazione. Ma ci saranno meno di 50 milioni di americani con l'istruzione adeguata". Finora quel divario è stato riempito importando informatici indiani, ingegneri cinesi, medici vietnamiti o italiani. Quanto può durare? E che fine faranno "gli scarti" che non hanno la formazione giusta? Che funzione sociale ha un sistema scolastico dove, "se entri in prima elementare con delle difficoltà a leggere, hai la quasi-certezza di conservare quel ritardo per tutta la tua carriera scolastica?"
Nel documentario di Guggenheim ci sono gli eroi positivi. Geoffrey Canada è l'insegnante nero che ha creato la Harlem Children Zone per offrire scuole di eccellenza nel quartiere storicamente degradato di New York. Michelle Rhee è la soprintendente alle scuole di Washington, che osa sfidare il potente sindacato degli insegnanti per introdurre gli aumenti di merito e il licenziamento dei prof più incapaci o assenteisti. La Rhee è di origine cinese, e i sistemi asiatici sono la "frusta" per spronare l'America a risvegliarsi dal suo torpore.

Là dove lo Stato non ce la fa intervengono i filantropi privati: il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, segue l'esempio di Bill Gates e dona 100 milioni alle scuole degradate del New Jersey. Ma il messaggio del film è doloroso, controverso. Il New York Times denuncia "l'accanimento contro gli insegnanti". Il sindaco di Washington è stato sconfitto e Michelle Rhee perderà il suo posto, malgrado l'appoggio personale di Obama che con il suo programma "Race to the Top" ha introdotto più flessibilità e meritocrazia nel sistema statale. "Il ceto medio americano - osserva l'esperta di pedagogia Judith Warner - non ama sentirsi dire che manda i figli in una scuola da Terzo mondo". È un'altra verità scomoda che molti preferiscono ignorare. Meglio aspettare Superman.

(04 ottobre 2010)


sabato 2 ottobre 2010

giovedì 30 settembre 2010

... E se imparassimo a difenderci?



DI NOAM CHOMSKYvisionesalternativas.com

Il linguista Noam Chomsky ha elaborato la lista delle “10 Strategie della Manipolazione” attraverso i mass media.

1 - La strategia della distrazione.

L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti.La strategia della distrazione è anche indispensabile per evitare l’interesse del pubblico verso le conoscenze essenziali nel campo della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica. “Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).

2 - Creare il problema e poi offrire la soluzione.

Questo metodo è anche chiamato “problema - reazione - soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” che produrrà una determinata reazione nel pubblico in modo che sia questa la ragione delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, oppure organizzare attentati sanguinosi per fare in modo che sia il pubblico a pretendere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito delle libertà. Oppure: creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.

3 - La strategia della gradualità.

Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po’ di anni consecutivi. Questo è il modo in cui condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte negli anni ‘80 e ‘90: uno Stato al minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.

4 - La strategia del differire.

Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria” guadagnando in quel momento il consenso della gente per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro di quello immediato. Per prima cosa, perché lo sforzo non deve essere fatto immediatamente. Secondo, perché la gente, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. In questo modo si dà più tempo alla gente di abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo con rassegnazione quando arriverà il momento.

5 - Rivolgersi alla gente come a dei bambini. La maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, spesso con voce flebile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente. Quanto più si cerca di ingannare lo spettatore, tanto più si tende ad usare un tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se questa avesse 12 anni o meno, allora, a causa della suggestionabilità, questa probabilmente tenderà ad una risposta o ad una reazione priva di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno (vedi “Armi silenziosi per guerre tranquille”).

6 - Usare l’aspetto emozionale molto più della riflessione.

Sfruttare l'emotività è una tecnica classica per provocare un corto circuito dell'analisi razionale e, infine, del senso critico dell'individuo. Inoltre, l'uso del tono emotivo permette di aprire la porta verso l’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o per indurre comportamenti….

7 - Mantenere la gente nell’ignoranza e nella mediocrità.

Far sì che la gente sia incapace di comprendere le tecniche ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza creata dall’ignoranza tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare da parte delle inferiori" (vedi “Armi silenziosi per guerre tranquille”).

8 - Stimolare il pubblico ad essere favorevole alla mediocrità.

Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti...

9 - Rafforzare il senso di colpa.

Far credere all’individuo di essere esclusivamente lui il responsabile della proprie disgrazie a causa di insufficente intelligenza, capacità o sforzo. In tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e si sente in colpa, cosa che crea a sua volta uno stato di depressione di cui uno degli effetti è l’inibizione ad agire. E senza azione non c’è rivoluzione!

10 - Conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca.

Negli ultimi 50’anni, i rapidi progressi della scienza hanno creato un crescente divario tra le conoscenze della gente e quelle di cui dispongono e che utilizzano le élites dominanti. Grazie alla biologia, alla neurobiologia e alla psicologia applicata, il “sistema” ha potuto fruire di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia fisicamente che psichicamente. Il sistema è riuscito a conoscere l’individuo comune molto meglio di quanto egli conosca sé stesso. Ciò comporta che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un più ampio controllo ed un maggior potere sulla gente, ben maggiore di quello che la gente esercita su sé stessa.

Noam ChomskyFonte: www.visionesalternativas.com.mxLink: Link:http://www.visionesalternativas.com.mx/index.php?option=com_content&task=view&id=48460&Itemid=1Settembre2010

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=7480

sabato 25 settembre 2010

La fragilità umana

Alla radice dell’Uomo, di ogni uomo, in misura più o meno variabile, ma sempre
presente, riscontriamo una costante: la consapevolezza della sua stessa
fragilità, precarietà, limitatezza, finitudine del suo essere
transeunte. Ciò comporta una sua connaturata debolezza sia di fronte ai
grandi misteri dell’esistenza sia di fronte alle difficoltà quotidiane. La
debolezza si debella cercando qualcosa che dia forza, che conforti, che aiuti a
superare le difficoltà. Prerogativa singolarissima dell’Uomo è il cercare
sostegno in un altro che, anche se debole di per sé, gli mitighi la difficoltà. Si determina il paradosso per cui unendo due debolezze si crea una forza, le
due debolezze si elidono fra loro o almeno cercano di farlo. Il debole cerca
conforto al suo stato e finisce spesso, inconsapevolmente, nel cercarlo in chi
poi in realtà, sotto sotto, talora è più debole di lui, ma ciò malgrado
lenisce, o si illude di farlo, la sua difficoltà. Tale verità è consacrata
nell’aforisma: " Amico nel dolor scema la pena!"
Per questa sua prerogativa, l’Uomo tende ad unirsi, perché con ciò riesce meglio la traversata, spesso
disagiata, dell’esistenza umana su questa terra; da soli si è più deboli,
insieme lo si è meno, quindi meglio unirsi che restare soli. L’Uomo ha
bisogno di unirsi e di socializzare, perché da solo tutto è più pesante. In
questo contesto si inserisce l’Amore. Non va confuso con quella improvvisa
tachicardia, con le cosiddette farfalle allo stomaco, col colpo di fulmine, che
sono manifestazioni di quel magico fenomeno che precede l’Amore, ma che ne è
preliminare e si chiama innamoramento. Né l’Amore va confuso col sesso che
se svuotato di contenuti degrada a mera ginnastica dei corpi. L’Amore è
qualcosa di molto più nobile ed alto ed è la medicina alle difficoltà del
vivere che, come detto, se affrontate da soli, sono piu’ gravose, è il modo
di dare un senso alla vita che diversamente potrebbe non averne. Troviamo
impareggiabile la fulminante definizione di uno dei nostri autori preferiti,
Victor Hugo: “La riduzione di tutto l’universo ad un solo essere è la dilatazione dello stesso essere fino a
Dio: ecco cosa è l’Amore”. Se c’è l’Amore tutto diviene più
leggero, più sopportabile, più vivibile, perché diversamente la vita
diverrebbe arida, senza prospettive, senza orizzonte. Ed infatti con
tagliente chirurgica precisione Cesare Pavese scrisse: “Il problema
principe dell’uomo è la solitudine ed il modo sommo che l’uomo ha escogitato
per risolverlo è la preghiera che consiste nel trovare sempre e comunque un
qualcuno disposto ad ascoltarlo e a fargli compagnia”. Dio diviene quindi l’
Amato e l’Amico per eccellenza, sempre pronto ad ascoltarlo e a sostenerlo, o
almeno, pensato come tale da chi vi si rifugia, sperato come tale, diviene il
porto sicuro e sempre aperto in cui poter attraccare durante le burrasche della
traversata della vita. In questa ottica, la scelta dell’eremita e della monaca
di clausura, che parrebbe apparentemente smentire il succitato bisogno vitale
dell’Uomo di unione, in realtà ne è una conferma ed una esaltazione,
basandosi sulla ricerca di un grandissimo Amato-Amico, da loro almeno sentito
come tale, con cui dialogano in continuazione e nel cui seno si abbandonano. Il
bisogno dell’Amore e quello di Dio hanno un comune denominatore: il bisogno di
un legame, ed esso consegue alla debolezza dell’Uomo.
by Erminio Volpe

domenica 12 settembre 2010

Sant'Agata de' Goti (BN)

Questo paese, antico e ricco di storia, rappresenta ancora un mondo da ammirare e da custodire. Il suo centro storico è ancora vivo e palpitante, con i suoi angoli suggestivi, le viuzze, le piazzette che odorano di piante sempreverdi e gli edifici che trasudano la muffa del tempo...

martedì 24 agosto 2010

Nullus locus sine genio est...

Ciascun luogo e ciascun gruppo ha un Genius Loci che può essere comparato a una divinità, la cui presenza continua dà carattere, coesione e « spirito « a quel luogo o a quel gruppo. Il Genius Loci cerca di mantenere un equilibrio congeniale tra gli elementi naturali e le culture, rappresentazioni molteplici dell’essere. Al contrario, si irrita se le caratteristiche e l’armonia vengono modificate da azioni o gesti estranei alla sua identità. I Greci e i Romani legavano ciascun luogo ad un particolare nume: ogni fonte, ogni valle, ogni montagna aveva la propria divinità tutelare. Il Genius Loci era un dio minore e locale: non risiedeva sull’Olimpo, ma in una certa città, collina o campagna. La classicità suggerisce , dunque, che i luoghi possono avere un’anima e diventare sede di uno spirito del luogo, di un Genius loci. I luoghi si guadagnavano l’anima, attraverso un processo di deposito, di accumulazione di affetti, che viene operato dalle diverse generazioni di persone che li hanno abitati. Non a caso, i sacerdoti greci e gli àuguri romani, piuttosto che i druidi celti, erano determinanti nella scelta della fondazione di una città, cosa di per sé sacra, perché sacro era ritenuto l'abitare. Abitare voleva dunque dire creare un microcosmo in simbiosi con il macrocosmo e lo spazio era la modalità principale dell'essere nel mondo. Si riteneva pertanto impossibile comprendere l'essenza dell'uomo indipendentemente dall'ambiente in cui viveva ed il luogo addirittura determinava gli atteggiamenti stessi dell'uomo. Ora, è chiaro che il nostro modello di civilizzazione è in palese contrasto con tutto ciò; oggi si è spezzato quel legame che teneva unite le popolazioni al proprio ambiente, alla terra e che era rappresentato dalle consuetudini popolari e dalle tradizioni.Tutte le culture tradizionali avevano festività e riti stagionali il cui scopo era quello di rinsaldare la comunità non solo umana ma comprendente la natura, il suolo, il paesaggio del posto. Il rituale era essenziale perchè stabiliva le connessioni profonde tra cultura e natura, forniva comunicazione a tutti i livelli: tra la persona e la comunità, tra la comunità e il territorio, e attraverso questi livelli,tra l'umano e il non umano. Oggi, per effetto della globalizzazione (che io non esito a definire omogeneizzazione), con la tecnologia diffusa e capillare che ci fa sentire dei padreterni sulla terra,le varie comunità stanno perdendo per sempre il senso dell'appartenenza e della identità dei luoghi. Se solo osserviamo il sovrapporsi delle costruzioni nei nostri piccoli paesi, nei centri storici ad esempio, là dove si è fatto scempio della cultura locale, dove nell'inconsapevolezza delle comunità si è distrutto il sentimento del luogo, il Genius Loci per l'appunto che era in armonia con la ricerca dei nostri sentimenti e della nostra memoria, come possiamo ricostruirci dalle fondamenta, come possiamo ritrovare la nostra identità? Inducendo il disordine nei luoghi, abbiamo eliminato quel flusso energetico che alimentava il nostro spirito, la nostra stessa vita ed abbiamo inoltrato la devastazione e la morte... Ma la morte dei luoghi, dell'ambiente è anche dentro di noi, perché se distruggiamo l'ambiente, di conseguenza distruggiamo la famiglia, la comunità, le tradizioni. L'uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di essa responsabile, consapevole del valore del mondo che lo circonda, attraversa il tempo della sua vita per comprenderne il senso e dunque al di fuori di una comunità vive una vita priva di senso.

domenica 1 agosto 2010

Dalla stampa estera

The Guardian (Gran Bretagna) del 14.7.2010

Attenzione al conflitto generazionale dell’Italia

Con una gerontocrazia che esclude i giovani dall’economia e dalla politica, l’Italia potrebbe rappresentare un segnale allarmante per gli altri Paesi.

Tra gli innumerevoli effetti devastanti dell’attuale crisi finanziaria, uno dei più perniciosi nel mondo industrializzato è costituito dalla curva ascendente del tasso di disoccupazione fra i giovani, salito di sei punti nell’area OCSE fra il 2007 e il 2009, con la Spagna che ha visto un allarmante 42% di disoccupazione giovanile nel 2010. Quando i giovani cessano di essere il motore di un’economia, la crescita economica a lungo termine viene messa in pericolo, ed i conflitti sociali diventano una effettiva minaccia per l’ordinamento politico democratico.

In questo senso l’Italia rappresenta un caso limite, dal momento che persino giovani lavoratori altamente qualificati, benché solitamente oltre la soglia di età relativa al tasso di disoccupazione giovanile (in Italia pari al 29,5%), vengono emarginati. Tuttavia la comprensione di questo fenomeno e delle sue conseguenze politiche fa luce su quanto altri Paesi OCSE potrebbero trovarsi a dover affrontare in futuro.

In quanto una delle società di più rapido invecchiamento al mondo, con un’economia ed un sistema politico inaccessibile ai suoi giovani, l’Italia presenta tutte le caratteristiche di una gerontocrazia. Stando a uno studio dell’Università Luiss, metà dei dirigenti di vertice nel campo degli affari e della politica hanno 60 anni o più. Inoltre l’istituto statistico nazionale, Istat, mette in rilievo che nel 2009 circa il 60% degli individui fra i 18 ed i 34 anni (ed il 30% di quelli fra i 30 e i 34) viveva con i propri genitori in conseguenza della propria incapacità a mantenersi da sé. Due milioni di persone nella stessa fascia di età venivano catalogati come “disoccupati, studenti o apprendisti”.

Il sistema scricchiola, ed i giovani italiani rischiano di diventare la prima generazione della storia moderna che sta peggio di chi l’ha preceduta. Non sorprende che il 79% della disoccupazione prodotta dalla crisi finanziaria è attribuibile a giovani lavoratori precari. Anche se il Paese è pur sempre lontano dagli impulsi radicali del 1968, la preclusione dell’Italia nei confronti dei propri giovani prepara il terreno per una rivolta generazionale.

Nel corso degli ultimi 30 anni l’Italia è caduta in una trappola da vecchiaia – un meccanismo auto-rafforzantesi per cui aspiranti pensionati (vecchi) si sono serviti del controllo del sistema politico per impedire alle nuove generazioni (la parte più dinamica ed innovativa della popolazione) di ottenere una fetta della torta. I giovani erano soliti credere che, da vecchi e con accesso al potere, il loro tenore di vita sarebbe stato almeno altrettanto alto di quello delle precedenti generazioni. Invece la gerontocrazia ha semplicemente realizzato i sogni di uguaglianza e sicurezza sociale delle vecchie generazioni a spese della gioventù attuale, che è stata caricata di uno schiacciante fardello di debito pubblico.

Generosi favori, andamenti demografici ed assenza di serie politiche familiari garantivano il mantenimento del contratto sociale, ora in pericolo. In primo luogo, gli alti livelli di debito limiteranno tanto i benefici sociali quanto la capacità dei futuri governi di scambiare favori con voti. In secondo luogo la globalizzazione, un sistema d’istruzione di bassa qualità ed istituzioni deboli generano incertezza ed insicurezza per i giovani, mettendo così in pericolo le prospettive di crescita dell’Italia – e quindi la prospettiva che le future generazioni verranno compensate in vecchiaia per una vita di sacrifici e duro lavoro.

Il processo per sfuggire alla trappola da vecchiaia e permettere alle giovani generazioni di assumere un ruolo chiave nell’economia può essere o graduale e relativamente indolore, oppure brusco e relativamente traumatico. Nel primo caso i politici realizzano riforme strutturali volte a ridistribuire costi e benefici fra le generazioni. Nel secondo ci troviamo di fronte ad uno scontro fra generazioni.

Questa situazione somiglia a quella di quelle organizzazioni in declino descritte nel pionieristico trattato di Albert O. Hirschman “Exit, Voice and Loyalty”. Quando la qualità di un’istituzione o di un sistema politico si abbassa, i suoi membri possono ritirarsi (“exit”), migliorare la situazione intervenendo direttamente (“voice”) oppure accettare passivamente il declino delle condizioni esistenti (“loyalty”).

In Italia prevalgono “ritiro” e “accettazione passiva”. Il primo può essere fisico (in base a certi studi, l’Italia è il solo Paese europeo che sta vivendo una “fuga” piuttosto che uno “scambio” di cervelli) o silenzioso (per esempio, bassa partecipazione al voto). Ma la difficoltà di avere un pensiero critico in un contesto di scarsa libertà di stampa, unitamente a trasferimenti di ricchezza interfamiliari a vantaggio dei giovani, mantengono la maggioranza fedele al sistema.

L’”intervento diretto” è in Italia quasi assente, perché l’insoddisfazione, per quanto diffusa, rimane di gran lunga insufficiente per poter far nascere un movimento di protesta organizzato. Invece “ritiro” e “fedeltà al sistema” allontanano la possibilità di crescita di quella coscienza collettiva di cui l’Italia ha bisogno per sfuggire gradualmente alla trappola da vecchiaia. Una volta che tutti i cittadini si renderanno conto della situazione sarà troppo tardi: il sistema sarà crollato e l’”intervento diretto” diventerà tanto forte che un conflitto intergenerazionale diventerà inevitabile.

Sarà un conflitto pacifico o violento? Nel primo caso, un eventuale partito dei giovani potrebbe servirsi delle istituzioni democratiche per far pressione in vista di radicali tagli ai benefici goduti dai vecchi. Nel secondo caso, delle proteste violente potrebbero portare a un’ondata rivoluzionaria simile a quella del 1968. Allora si trattò di contestatori che volevano liberare le classi svantaggiate dall’oppressione del capitalismo; ora invece essi potrebbero cercare di liberare le generazioni svantaggiate dalle pastoie della gerontocrazia.

Sfortunatamente, le tendenze demografiche rendono più probabile il secondo scenario, dal momento che i giovani saranno una minoranza, incapaci di conquistare il potere con mezzi democratici. Solo adottando serie politiche familiari, ovvero emancipando nuovi immigrati – che di solito sono abbastanza giovani – una transizione economica di tipo democratico sarebbe più probabile.

I leaders dei Paesi OCSE dovrebbero guardare all’Italia e riconoscere i pericoli che emergono da quei suoi giovani abbandonati a sé stessi. Invece in Italia è più urgente che mai che le vecchie generazioni comincino ad agire con saggezza.