giovedì 28 ottobre 2010

" O emigranti o briganti": Il destino del Sud 1

Comincio oggi una rassegna delle principali tesi, di insigni studiosi, sulla Questione meridionale, così come si è andata profilando dall'Unità d'Italia ad oggi.
Lo faccio innanzitutto per me stessa, per meglio chiarirmi convinzioni che forse ho maturato in maniera acritica, sull'onda di una passione probabilmente troppo letteraria. Lo faccio però anche per i giovani, miei allievi, che nulla sanno o poco sulla storia del Mezzogiorno d'Italia.

Tesi n.1: Benedetto Croce, Storia del Regno d'Italia, Laterza 1958, I^ ediz. 1924
La favola della naturale ricchezza del Mezzogiorno
Fino al momento dell'Unità d'Italia, la società meridionale era composta dai baroni, dal clero e dal popolo. I baroni, proprietari fondiari, non coltivavano direttamente le loro terre ma le affidavano ad agenti e avvocati mentre essi vivevano quasi tutto l'anno in capitale. Vivevano nel lusso e nel fasto senza cura di uffici pubblici, senza svolgere alcun lavoro produttivo. Si dedicavano all'ozio serviti da uno stuolo enorme di servi. Niente meraviglia se a furia di spendere e spandere la loro ricchezza andava scemando sempre più. Essa trapassava nel medio ceto o ceto civile, che era rappresentato dagli speculatori e dagli avvocati. Dagli avvocati la nobiltà , per la sua inerzia e ignoranza, dipendeva affatto e tante erano le controversie nascenti dal groviglio dei diritti e dalla molteplicità delle legislazioni, che l'importanza di quella classe si fece grandissima, e l'esercizio del foro parve fosse la sola strada aperta agli uomini intraprendenti. Dal foro si saliva infatti alla magistratura e agli uffici politici. La struttura sociale della città di Napoli si determinò sin dal secolo XVII sotto il dominio spagnolo che vi portò famiglie di spagnuoli e di altri forestieri legati agli interessi di Spagna, come i genovesi che servirono da richiamo per artigiani e commercianti e servitori, e per ogni qualità di gente intraprendente come quella che si dava ai tribunali. Il popolo odiava i baroni e la piccola nobiltà cittadina e odiava il fatto che solo loro erano costretti a pagare le gabelle. Il popolo sfociava nella plebe affamata e brulicante, violenta e rissosa che i viceré spesso crudelmente giustiziavano. La cultura difettava di studi politici e morali: era solo erudizione acritica e arida. L'unica vera luce al dibattito culturale era la casistica e le sottigliezze forensi, che determinò per secoli l'intellettualità napoletana. L'irriflessione e l'inerzia mentale spiega come gli scrittori tracciassero un quadro del regno di Napoli simile a un Eldorado, il più bel regno d'Europa, ricco di ogni bellezza e virtù.
Napoli era povera, povere erano le provincie!...
Assai spesso, ogni difficoltà era disbrigata con qualche facile teoria, come quella che riportava la causa delle invasioni e delle guerre di continuo sofferte dal Regno di Napoli alla ricchezza del paese, da tutti bramato e invidiato, mentre il segno effettivo della sollecitudine per la cosa pubblica è la trepidazione e l'angoscia e il pessimismo, come il segno mentale è la critica e la censura. Uno solo, tra gli scrittori del tempo, un certo Antonio Serra, calabrese di Cosenza, scrisse un saggio nel 1613, di economia politica sul regno di Napoli, dove si riconosceva chiaramente che il regno era povero, innanzitutto per il sito, disadatto al traffico; povero per la mancanza di "artefici" ossia d'industrie; povero ancor più per l'indole e il costume poco industrioso degli abitatori del paese, i quali non "trafficano fuora del loro proprio paese, né in Europa né In Italia, né fanno l'industrie del paese loro istesso, e in quello vengono a farle genovesi, fiorentini, bergamaschi, veneziani e altri".Povero infine per la natura del suo governo, giacché a bene indirizzare e a svolgere l'economia di un paese vale l'opera di colui che governa...
Napoli è dunque impoverita non dal danaro che i re di Spagna le portano via, ma principalmente dal malgoverno, che è la "causa agente e superiore a tutti gli altri accidenti".La voce di quel tale Serra non fu ascoltata dai suoi contemporanei, non trovò adito nelle menti, ed è miracolo che non sia perduto.

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