martedì 24 agosto 2010
Nullus locus sine genio est...
Ciascun luogo e ciascun gruppo ha un Genius Loci che può essere comparato a una divinità, la cui presenza continua dà carattere, coesione e « spirito « a quel luogo o a quel gruppo. Il Genius Loci cerca di mantenere un equilibrio congeniale tra gli elementi naturali e le culture, rappresentazioni molteplici dell’essere. Al contrario, si irrita se le caratteristiche e l’armonia vengono modificate da azioni o gesti estranei alla sua identità. I Greci e i Romani legavano ciascun luogo ad un particolare nume: ogni fonte, ogni valle, ogni montagna aveva la propria divinità tutelare. Il Genius Loci era un dio minore e locale: non risiedeva sull’Olimpo, ma in una certa città, collina o campagna. La classicità suggerisce , dunque, che i luoghi possono avere un’anima e diventare sede di uno spirito del luogo, di un Genius loci. I luoghi si guadagnavano l’anima, attraverso un processo di deposito, di accumulazione di affetti, che viene operato dalle diverse generazioni di persone che li hanno abitati. Non a caso, i sacerdoti greci e gli àuguri romani, piuttosto che i druidi celti, erano determinanti nella scelta della fondazione di una città, cosa di per sé sacra, perché sacro era ritenuto l'abitare. Abitare voleva dunque dire creare un microcosmo in simbiosi con il macrocosmo e lo spazio era la modalità principale dell'essere nel mondo. Si riteneva pertanto impossibile comprendere l'essenza dell'uomo indipendentemente dall'ambiente in cui viveva ed il luogo addirittura determinava gli atteggiamenti stessi dell'uomo. Ora, è chiaro che il nostro modello di civilizzazione è in palese contrasto con tutto ciò; oggi si è spezzato quel legame che teneva unite le popolazioni al proprio ambiente, alla terra e che era rappresentato dalle consuetudini popolari e dalle tradizioni.Tutte le culture tradizionali avevano festività e riti stagionali il cui scopo era quello di rinsaldare la comunità non solo umana ma comprendente la natura, il suolo, il paesaggio del posto. Il rituale era essenziale perchè stabiliva le connessioni profonde tra cultura e natura, forniva comunicazione a tutti i livelli: tra la persona e la comunità, tra la comunità e il territorio, e attraverso questi livelli,tra l'umano e il non umano. Oggi, per effetto della globalizzazione (che io non esito a definire omogeneizzazione), con la tecnologia diffusa e capillare che ci fa sentire dei padreterni sulla terra,le varie comunità stanno perdendo per sempre il senso dell'appartenenza e della identità dei luoghi. Se solo osserviamo il sovrapporsi delle costruzioni nei nostri piccoli paesi, nei centri storici ad esempio, là dove si è fatto scempio della cultura locale, dove nell'inconsapevolezza delle comunità si è distrutto il sentimento del luogo, il Genius Loci per l'appunto che era in armonia con la ricerca dei nostri sentimenti e della nostra memoria, come possiamo ricostruirci dalle fondamenta, come possiamo ritrovare la nostra identità? Inducendo il disordine nei luoghi, abbiamo eliminato quel flusso energetico che alimentava il nostro spirito, la nostra stessa vita ed abbiamo inoltrato la devastazione e la morte... Ma la morte dei luoghi, dell'ambiente è anche dentro di noi, perché se distruggiamo l'ambiente, di conseguenza distruggiamo la famiglia, la comunità, le tradizioni. L'uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di essa responsabile, consapevole del valore del mondo che lo circonda, attraversa il tempo della sua vita per comprenderne il senso e dunque al di fuori di una comunità vive una vita priva di senso.
sabato 21 agosto 2010
domenica 1 agosto 2010
Dalla stampa estera
The Guardian (Gran Bretagna) del 14.7.2010
Attenzione al conflitto generazionale dell’Italia
Con una gerontocrazia che esclude i giovani dall’economia e dalla politica, l’Italia potrebbe rappresentare un segnale allarmante per gli altri Paesi.
Tra gli innumerevoli effetti devastanti dell’attuale crisi finanziaria, uno dei più perniciosi nel mondo industrializzato è costituito dalla curva ascendente del tasso di disoccupazione fra i giovani, salito di sei punti nell’area OCSE fra il 2007 e il 2009, con la Spagna che ha visto un allarmante 42% di disoccupazione giovanile nel 2010. Quando i giovani cessano di essere il motore di un’economia, la crescita economica a lungo termine viene messa in pericolo, ed i conflitti sociali diventano una effettiva minaccia per l’ordinamento politico democratico.
In questo senso l’Italia rappresenta un caso limite, dal momento che persino giovani lavoratori altamente qualificati, benché solitamente oltre la soglia di età relativa al tasso di disoccupazione giovanile (in Italia pari al 29,5%), vengono emarginati. Tuttavia la comprensione di questo fenomeno e delle sue conseguenze politiche fa luce su quanto altri Paesi OCSE potrebbero trovarsi a dover affrontare in futuro.
In quanto una delle società di più rapido invecchiamento al mondo, con un’economia ed un sistema politico inaccessibile ai suoi giovani, l’Italia presenta tutte le caratteristiche di una gerontocrazia. Stando a uno studio dell’Università Luiss, metà dei dirigenti di vertice nel campo degli affari e della politica hanno 60 anni o più. Inoltre l’istituto statistico nazionale, Istat, mette in rilievo che nel 2009 circa il 60% degli individui fra i 18 ed i 34 anni (ed il 30% di quelli fra i 30 e i 34) viveva con i propri genitori in conseguenza della propria incapacità a mantenersi da sé. Due milioni di persone nella stessa fascia di età venivano catalogati come “disoccupati, studenti o apprendisti”.
Il sistema scricchiola, ed i giovani italiani rischiano di diventare la prima generazione della storia moderna che sta peggio di chi l’ha preceduta. Non sorprende che il 79% della disoccupazione prodotta dalla crisi finanziaria è attribuibile a giovani lavoratori precari. Anche se il Paese è pur sempre lontano dagli impulsi radicali del 1968, la preclusione dell’Italia nei confronti dei propri giovani prepara il terreno per una rivolta generazionale.
Nel corso degli ultimi 30 anni l’Italia è caduta in una trappola da vecchiaia – un meccanismo auto-rafforzantesi per cui aspiranti pensionati (vecchi) si sono serviti del controllo del sistema politico per impedire alle nuove generazioni (la parte più dinamica ed innovativa della popolazione) di ottenere una fetta della torta. I giovani erano soliti credere che, da vecchi e con accesso al potere, il loro tenore di vita sarebbe stato almeno altrettanto alto di quello delle precedenti generazioni. Invece la gerontocrazia ha semplicemente realizzato i sogni di uguaglianza e sicurezza sociale delle vecchie generazioni a spese della gioventù attuale, che è stata caricata di uno schiacciante fardello di debito pubblico.
Generosi favori, andamenti demografici ed assenza di serie politiche familiari garantivano il mantenimento del contratto sociale, ora in pericolo. In primo luogo, gli alti livelli di debito limiteranno tanto i benefici sociali quanto la capacità dei futuri governi di scambiare favori con voti. In secondo luogo la globalizzazione, un sistema d’istruzione di bassa qualità ed istituzioni deboli generano incertezza ed insicurezza per i giovani, mettendo così in pericolo le prospettive di crescita dell’Italia – e quindi la prospettiva che le future generazioni verranno compensate in vecchiaia per una vita di sacrifici e duro lavoro.
Il processo per sfuggire alla trappola da vecchiaia e permettere alle giovani generazioni di assumere un ruolo chiave nell’economia può essere o graduale e relativamente indolore, oppure brusco e relativamente traumatico. Nel primo caso i politici realizzano riforme strutturali volte a ridistribuire costi e benefici fra le generazioni. Nel secondo ci troviamo di fronte ad uno scontro fra generazioni.
Questa situazione somiglia a quella di quelle organizzazioni in declino descritte nel pionieristico trattato di Albert O. Hirschman “Exit, Voice and Loyalty”. Quando la qualità di un’istituzione o di un sistema politico si abbassa, i suoi membri possono ritirarsi (“exit”), migliorare la situazione intervenendo direttamente (“voice”) oppure accettare passivamente il declino delle condizioni esistenti (“loyalty”).
In Italia prevalgono “ritiro” e “accettazione passiva”. Il primo può essere fisico (in base a certi studi, l’Italia è il solo Paese europeo che sta vivendo una “fuga” piuttosto che uno “scambio” di cervelli) o silenzioso (per esempio, bassa partecipazione al voto). Ma la difficoltà di avere un pensiero critico in un contesto di scarsa libertà di stampa, unitamente a trasferimenti di ricchezza interfamiliari a vantaggio dei giovani, mantengono la maggioranza fedele al sistema.
L’”intervento diretto” è in Italia quasi assente, perché l’insoddisfazione, per quanto diffusa, rimane di gran lunga insufficiente per poter far nascere un movimento di protesta organizzato. Invece “ritiro” e “fedeltà al sistema” allontanano la possibilità di crescita di quella coscienza collettiva di cui l’Italia ha bisogno per sfuggire gradualmente alla trappola da vecchiaia. Una volta che tutti i cittadini si renderanno conto della situazione sarà troppo tardi: il sistema sarà crollato e l’”intervento diretto” diventerà tanto forte che un conflitto intergenerazionale diventerà inevitabile.
Sarà un conflitto pacifico o violento? Nel primo caso, un eventuale partito dei giovani potrebbe servirsi delle istituzioni democratiche per far pressione in vista di radicali tagli ai benefici goduti dai vecchi. Nel secondo caso, delle proteste violente potrebbero portare a un’ondata rivoluzionaria simile a quella del 1968. Allora si trattò di contestatori che volevano liberare le classi svantaggiate dall’oppressione del capitalismo; ora invece essi potrebbero cercare di liberare le generazioni svantaggiate dalle pastoie della gerontocrazia.
Sfortunatamente, le tendenze demografiche rendono più probabile il secondo scenario, dal momento che i giovani saranno una minoranza, incapaci di conquistare il potere con mezzi democratici. Solo adottando serie politiche familiari, ovvero emancipando nuovi immigrati – che di solito sono abbastanza giovani – una transizione economica di tipo democratico sarebbe più probabile.
I leaders dei Paesi OCSE dovrebbero guardare all’Italia e riconoscere i pericoli che emergono da quei suoi giovani abbandonati a sé stessi. Invece in Italia è più urgente che mai che le vecchie generazioni comincino ad agire con saggezza.
Attenzione al conflitto generazionale dell’Italia
Con una gerontocrazia che esclude i giovani dall’economia e dalla politica, l’Italia potrebbe rappresentare un segnale allarmante per gli altri Paesi.
Tra gli innumerevoli effetti devastanti dell’attuale crisi finanziaria, uno dei più perniciosi nel mondo industrializzato è costituito dalla curva ascendente del tasso di disoccupazione fra i giovani, salito di sei punti nell’area OCSE fra il 2007 e il 2009, con la Spagna che ha visto un allarmante 42% di disoccupazione giovanile nel 2010. Quando i giovani cessano di essere il motore di un’economia, la crescita economica a lungo termine viene messa in pericolo, ed i conflitti sociali diventano una effettiva minaccia per l’ordinamento politico democratico.
In questo senso l’Italia rappresenta un caso limite, dal momento che persino giovani lavoratori altamente qualificati, benché solitamente oltre la soglia di età relativa al tasso di disoccupazione giovanile (in Italia pari al 29,5%), vengono emarginati. Tuttavia la comprensione di questo fenomeno e delle sue conseguenze politiche fa luce su quanto altri Paesi OCSE potrebbero trovarsi a dover affrontare in futuro.
In quanto una delle società di più rapido invecchiamento al mondo, con un’economia ed un sistema politico inaccessibile ai suoi giovani, l’Italia presenta tutte le caratteristiche di una gerontocrazia. Stando a uno studio dell’Università Luiss, metà dei dirigenti di vertice nel campo degli affari e della politica hanno 60 anni o più. Inoltre l’istituto statistico nazionale, Istat, mette in rilievo che nel 2009 circa il 60% degli individui fra i 18 ed i 34 anni (ed il 30% di quelli fra i 30 e i 34) viveva con i propri genitori in conseguenza della propria incapacità a mantenersi da sé. Due milioni di persone nella stessa fascia di età venivano catalogati come “disoccupati, studenti o apprendisti”.
Il sistema scricchiola, ed i giovani italiani rischiano di diventare la prima generazione della storia moderna che sta peggio di chi l’ha preceduta. Non sorprende che il 79% della disoccupazione prodotta dalla crisi finanziaria è attribuibile a giovani lavoratori precari. Anche se il Paese è pur sempre lontano dagli impulsi radicali del 1968, la preclusione dell’Italia nei confronti dei propri giovani prepara il terreno per una rivolta generazionale.
Nel corso degli ultimi 30 anni l’Italia è caduta in una trappola da vecchiaia – un meccanismo auto-rafforzantesi per cui aspiranti pensionati (vecchi) si sono serviti del controllo del sistema politico per impedire alle nuove generazioni (la parte più dinamica ed innovativa della popolazione) di ottenere una fetta della torta. I giovani erano soliti credere che, da vecchi e con accesso al potere, il loro tenore di vita sarebbe stato almeno altrettanto alto di quello delle precedenti generazioni. Invece la gerontocrazia ha semplicemente realizzato i sogni di uguaglianza e sicurezza sociale delle vecchie generazioni a spese della gioventù attuale, che è stata caricata di uno schiacciante fardello di debito pubblico.
Generosi favori, andamenti demografici ed assenza di serie politiche familiari garantivano il mantenimento del contratto sociale, ora in pericolo. In primo luogo, gli alti livelli di debito limiteranno tanto i benefici sociali quanto la capacità dei futuri governi di scambiare favori con voti. In secondo luogo la globalizzazione, un sistema d’istruzione di bassa qualità ed istituzioni deboli generano incertezza ed insicurezza per i giovani, mettendo così in pericolo le prospettive di crescita dell’Italia – e quindi la prospettiva che le future generazioni verranno compensate in vecchiaia per una vita di sacrifici e duro lavoro.
Il processo per sfuggire alla trappola da vecchiaia e permettere alle giovani generazioni di assumere un ruolo chiave nell’economia può essere o graduale e relativamente indolore, oppure brusco e relativamente traumatico. Nel primo caso i politici realizzano riforme strutturali volte a ridistribuire costi e benefici fra le generazioni. Nel secondo ci troviamo di fronte ad uno scontro fra generazioni.
Questa situazione somiglia a quella di quelle organizzazioni in declino descritte nel pionieristico trattato di Albert O. Hirschman “Exit, Voice and Loyalty”. Quando la qualità di un’istituzione o di un sistema politico si abbassa, i suoi membri possono ritirarsi (“exit”), migliorare la situazione intervenendo direttamente (“voice”) oppure accettare passivamente il declino delle condizioni esistenti (“loyalty”).
In Italia prevalgono “ritiro” e “accettazione passiva”. Il primo può essere fisico (in base a certi studi, l’Italia è il solo Paese europeo che sta vivendo una “fuga” piuttosto che uno “scambio” di cervelli) o silenzioso (per esempio, bassa partecipazione al voto). Ma la difficoltà di avere un pensiero critico in un contesto di scarsa libertà di stampa, unitamente a trasferimenti di ricchezza interfamiliari a vantaggio dei giovani, mantengono la maggioranza fedele al sistema.
L’”intervento diretto” è in Italia quasi assente, perché l’insoddisfazione, per quanto diffusa, rimane di gran lunga insufficiente per poter far nascere un movimento di protesta organizzato. Invece “ritiro” e “fedeltà al sistema” allontanano la possibilità di crescita di quella coscienza collettiva di cui l’Italia ha bisogno per sfuggire gradualmente alla trappola da vecchiaia. Una volta che tutti i cittadini si renderanno conto della situazione sarà troppo tardi: il sistema sarà crollato e l’”intervento diretto” diventerà tanto forte che un conflitto intergenerazionale diventerà inevitabile.
Sarà un conflitto pacifico o violento? Nel primo caso, un eventuale partito dei giovani potrebbe servirsi delle istituzioni democratiche per far pressione in vista di radicali tagli ai benefici goduti dai vecchi. Nel secondo caso, delle proteste violente potrebbero portare a un’ondata rivoluzionaria simile a quella del 1968. Allora si trattò di contestatori che volevano liberare le classi svantaggiate dall’oppressione del capitalismo; ora invece essi potrebbero cercare di liberare le generazioni svantaggiate dalle pastoie della gerontocrazia.
Sfortunatamente, le tendenze demografiche rendono più probabile il secondo scenario, dal momento che i giovani saranno una minoranza, incapaci di conquistare il potere con mezzi democratici. Solo adottando serie politiche familiari, ovvero emancipando nuovi immigrati – che di solito sono abbastanza giovani – una transizione economica di tipo democratico sarebbe più probabile.
I leaders dei Paesi OCSE dovrebbero guardare all’Italia e riconoscere i pericoli che emergono da quei suoi giovani abbandonati a sé stessi. Invece in Italia è più urgente che mai che le vecchie generazioni comincino ad agire con saggezza.
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